Beh, io invece approfitto veramente del 50° per effettuare un riascolto, anche perché le occasioni per riascoltare questo disco difficilmente si presentano da sole in modo spontaneo...
Partiamo male: il disco si apre con “rumori vari”, un’idea difficilmente definibile come originale. Segue una parte che si sforza di essere estremamente progressiva ma sembra al massimo “circense”, con un intrecciarsi di temi piuttosto forzati e avari di leggerezza. Il tutto dura un paio di minuti, e già siamo alla prima di una lunga serie di noiose parti semi-recitate. Subentra quindi una breve punteggiatura di organo Hammond a cui presto si sostituisce un pieno orchestrale con assolo di sassofono, anche in questo caso completamente sterilizzata dal temibile bacillo della leggerezza. Pochi istanti e siamo di nuovo ad un pesantissimo recitato. Brevissimo stacco che sembra portare a qualcosa di interessante ma non riesce assolutamente a decollare, e ci ritroviamo subito sui consueti arpeggini di chitarra.
Siamo all’aria “All along the icy wastes” che inizialmente illude, ma si perde subito su ritmetti involuti e inconcludenti, intrecciati di assoli con timbri francamente a tratti molto brutti. Parte un assolo di flauto, retto da una batteria impastata per nulla trascinante. Ancora grandissima pesantezza e passaggi armonici francamente orribili negli incisi che conducono a “Lover of the black and white”. Il lato si chiude con un’eterea aria bucolica che avrebbe meritato un approfondimento, e invece viene interrotta dall’agghiacciante recita “The Hare who lost his spectacles”, con tanto di pedantissima pronuncia “ecclesiastica”.
Il lato B si apre con il terrificante prosieguo del recitato teatrale, una sezione di tal micidiale pesantezza da far apparire come degli allegri ballabili le sezioni “musical” di Pink Floyd The Wall. Il senso suo m’è duro. Io veramente non so darmi ragione di cosa possa aver portato a pensare che una pizza simile potesse veramente finire in un disco.
Riaffiora il tema bucolico, ma in breve si torna ad un recitato, reso poi un poco più interessante da rapide incursioni di qualche strumento (organo hammond prima, chitarra acustica poi). Su un inciso piuttosto sanguigno parte un tutt’altro che disdicevole assolo di sassofono, siamo forse alla parte migliore di tutto il disco. Segue una sezione contraddistinta da una certa sperimentazione con i sintetizzatori, sufficientemente interessante anche se basata su arie non proprio memorabili e caratterizzata da qualche passaggio inarmonico (modo gentile per dire cacofonico). Dopo una pesante sezione che riprende il tema generale dell’album, subentra una parte per chitarre con alcune sfumature stile “vecchio west” piuttosto fuori luogo. E con l’n+1esimo recitato nonché con ancora un po’ d’inarmonie (chiamiamole così...) l’album finalmente termina. In calando, occorre dirlo.
Bene. Anzi, male. Mentre colloco sul giradischi Aqualung per rifarmi le orecchie
cerco di trarre qualche conclusione. Questo riascolto è servito se non altro ad una cosa: a convincermi che effettivamente abbia ragione Rizzi: siccome erano stati cooptati a forza nella brigata dei complessi progressivi, i Jethro Tull si erano messi in testa di incidere un disco eminentemente e palesemente progressivo. E in effetti nulla da dire: questo lavoro contiene tutti gli stilemi tipici del progressive. Peccato però che, ovviamente, non basta una sequenza di
standard classici per fare un buon disco; e difatti nel complesso l’opera appare involuta, artificiosa, arzigogolata, pretenziosa, sempre opaca, ripetitiva, per lunghissimi tratti noiosa. Il vero difetto è che non c’è in tutto il disco un’aria veramente brillante, un riff veramente memorabile, un ritmo veramente trascinante. Onestamente il disco non è letteralmente
inascoltabile come me lo ricordavo, è solo molto brutto e molto noioso. Il confronto diretto con Aqualung che scorre in sottofondo mentre scrivo, rende l’accostamento veramente impietoso. Comunque, siccome la copertina di A Passion Play (almeno quella) è molto bella, ecco che anch’io come Maomac ed Alain mi accingo a riporlo abbastanza in vista nella mia nutrita discoteca.
Solo Calipso, diva canora dai riccioli belli, solo Atena, diva possente dagli occhi cilestri, sa se nel mio destino è scritto ch’io 'l possa udire ancora.