Rinascere per vincere
di Wilma Massucco
Vittorio Podestà, campione mondiale di handbike
«Finché uno non sente un certo rumore o un certo suono, ne ignora l'esistenza. Io non avrei mai immaginato di dover diventare un disabile, era un'eventualità che non avevo contemplato. Ci si aspetta più facilmente di avere un cancro, anche la morte... ma la disabilità solitamente non viene considerata».
Vittorio Podestà, ex ingegnere, ha trentacinque anni ed è sulla sedia a rotelle da quando ne aveva ventinove, cioè da quando un incidente stradale gli ha fatto perdere l'uso delle gambe. Era il 19 marzo 2002. A settembre dello stesso anno, dopo solo un mese da quando è stato dimesso dall'Unità spinale di Sondalo (Sondrio), inizia a giocare a basket in carrozzina; di lì a poco si sposa con Barbara, la donna che ha conosciuto durante la riabilitazione in ospedale, e inizia a correre in handbike (una particolare bici a tre ruote, che l'atleta muove con le mani azionando delle manovelle al posto dei classici pedali). Nel 2005 è campione italiano di handbike a cronometro, nel 2006 è secondo alla Maratona di New York, nel 2007 è campione del mondo, nel 2008 vince l'argento alle Paralimpiadi di Pechino.
«Per me andare in bicicletta è sempre stata una grande passione. Quando andavo in bici, rilassato, da solo, in mezzo ai boschi, tra me e me pensavo: la bici è la mia ancora di salvezza, qualunque cosa mi possa succedere (difficoltà sul lavoro, o in famiglia, o con la fidanzata...) dopo due ore di bici riuscirò sempre a recuperare la mia serenità. Ecco, quando pensavo a "qualunque cosa", non avevo contemplato l'eventualità della carrozzina».
Vittorio, ci racconti com'è andata la sera dell'incidente?
Ero appena uscito dall'ufficio, dopo un'intensa giornata di lavoro (allora lavoravo come ingegnere edile presso una società per autostrade) e, passando su un ponticello con un leggero cordolo rialzato, l'auto che guidavo si è cappottata. Mi sono ritrovato con il busto steso sul sedile del passeggero; non avevo un graffio e non sentivo dolore ma, quando ho provato a rialzarmi, senza riuscirci, e ho toccato le gambe, ho capito che non c'era più niente da fare... ero come diviso in due, dall'ombelico in giù non sentivo più niente. Un paio d'ore più tardi, in ospedale, mi hanno confermato quello che avevo già intuito: avevo perso per sempre l'uso delle gambe, due vertebre della mia schiena erano esplose.
A quel punto mi sono detto: «Vittorio, adesso vediamo che cosa sai fare; vediamo che cosa la vita ti riserverà». Non so perché, ma in quel momento non ho visto l'incidente come una punizione; avevo la sensazione, non so da dove provenisse, che quello che mi era successo sarebbe stata piuttosto un'opportunità che non avevo considerato, un diverso modo di vivere. Continuavo a pensare, anche grazie alle risorse interiori che sentivo di avere, che se la vita mi aveva portato davanti a questo, io comunque avrei potuto sopportarlo. Forse quello che mi aspettava avrebbe potuto essere anche meglio di quello che il "normale" cammino che stavo percorrendo lasciava presupporre. Giuro che non sono mai stato un ottimista irrazionale... eppure questi pensieri mi rimanevano nella testa e scacciavano quelli più brutti e autodistruttivi. Io ho sempre immaginato che la vita sia un po' come una specie di Giro d'Italia, con delle partenze e degli arrivi già prefissati (una sorta di destino, se vogliamo definirlo così), ma come arrivare da una tappa all'altra dipende solo da noi, dalle esperienze che man mano acquisiamo, dalle nostre decisioni, dai nostri comportamenti e scelte nelle varie situazioni.
Certo, in quel momento ho anche pensato: non potrò più andare in bicicletta; tutto il resto lo sistemo, ma questo no.
Quella cosa, che fino a quel momento sentivo che mi avrebbe permesso di superare qualsiasi difficoltà, l'avevo persa per sempre.
Come sei arrivato all'handbike?
Grazie a un amico che quattro anni prima aveva avuto un incidente sul lavoro, a seguito del quale era rimasto su una carrozzina, paraplegico come me. Qualche tempo dopo il mio incidente, lui mi ha invitato a casa sua e mi ha mostrato la sua handbike. Io sono sempre stato appassionato della bici, non solo di andarci sopra ma anche del mezzo, della tecnica e della meccanica, di ogni sua componente. Quando ho visto l'handbike è stato amore a prima vista, per la sua enorme somiglianza con la bicicletta. Ne ho subito ordinata una uguale, e dopo solo un mese di entusiastici allenamenti giornalieri ho voluto provare la sensazione di partecipare a una gara, nella quale mi sono classificato tra gli ultimi. Eppure già da subito, già da quella prima gara, osservavo con attenzione i primi: come si preparavano, che marca di handbike e che tipo di ruote utilizzavano; chiedevo loro quanti chilometri percorrevano, che tipo di allenamenti seguivano e così via.
Come è stato il tuo percorso di atleta, dagli esordi in avanti?
Quando ho vinto il Campionato italiano a cronometro senza avere una particolare programmazione, ma solo guidato dalla mia passata esperienza nel ciclismo, ho deciso di dedicarmi completamente a questo sport e ho contattato un preparatore atletico che mi potesse indicare una corretta pianificazione dell'allenamento. Dopo aver partecipato a diversi campionati italiani (dove mi classificavo sempre ai primi posti), nel 2006 ho capito che - se volevo crescere davvero - dovevo imparare dai più forti del mondo, e per questo dovevo andare a correre in Europa. Questa è stata la svolta: partecipare a più gare possibili del circuito europeo per imparare dai più forti. Così nel 2007 ho partecipato a quasi tutte le gare di questo torneo: è stata una stagione durissima, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Olanda... anche senza vincere gare mi sono avvicinato molto alle prestazioni dei migliori e, da campione italiano a cronometro, sono stato convocato per i Mondiali di Bordeaux del 2007.