Melt, PG3, il terzo disco, semplicemente Peter Gabriel. Per chi non lo sapesse questo poliedrico artista all'inizio della sua carriera aveva l'intenzione di fare uscire diversi dischi a scadenza annuale a solo suo nome. Come se fosse una rivista in cui cambia solo l'immagine in copertina. E quest'immagine che vede un Peter Gabriel in prima persona sciogliersi (una creazione fatta dalla Hypgnosis su una polaroid appena scatttata) è esattamente rivelatrice di un disco che parla fondamentalmente del disagio e dell'alienazione dell'uomo moderno. Vanta ospiti d'eccezione come Phil Collins alla batteria, a suonare gratis in virtù della loro passata amicizia e collaborazione nei Genesis, John Giblin al basso, Paul Weller... L'idea geniale di Gabriel: far suonare Phil Collins senza piatti. Durante le prove per caso si trova a provare un suono particolare di batteria, un suono che fino a quel momento non esisteva e che lo sentiremo praticamente ovunque nel corso degli anni 80: verrà accreditato come "gated reverb" a nome Gabriel/Collins ed è il suono che apre il pezzo Intruder. E' programmatico come pezzo tutto costruito in suoni, accenti, tonalità da incutere paura nell'ascoltatore. E' l'intruso sotto ogni forma possibile immaginabile: "mi piace l'odore dei bei vestiti che indossi, mi piace sentirti stesa e il tuo respiro affannoso perchè sai che sono li...le forbici che tagliano i cavi del telefono..." E' il ladro, l'assassino, lo stupratore... E' un Gabriel con un piglio oscuro quasi luciferino. Sentire questo brano dal vivo ti mette i brividi addosso. Start è l'introduzione strumentale a "I don't Remember" che si apre con un'urlo bollato dallo stesso autore come "esuberanza giovanile". La ritmica è ben scandita, marziale, e l'autore ci racconta di un uomo che non ricorda. E' spaesato, si trova in un luogo che non riconosce, con persone che incessantemente gli pongono domande ma l'unica certezza che ha, l'unica verità da rivelare è: "scusate ma non ho nulla da dire, non ricordo più nulla". Family Snapshot è una delle opere più alte del lirismo e della canzone gabrieliana. E' ispirata dal libro "Diario di un'assassino" di Arthur Bremer. Si tratta del diario dell'attentatore alla vita del governatore Wallace nel 1972. Nella canzone Gabriel accetta di esprimere la tesi che l'evento è stato compiuto perchè l'attentatore era in cerca di attenzioni. Attenzioni che gli erano state negate sin da piccolo dai propri genitori. Verso la fine della canzone ci sono dei passi toccanti descritti con la levità tipica di quest'autore: la quiete nella casa, un bimbo nascosto dietro la porta, la pistola giocattolo sul pavimento, la supplica ai genitori di tornare indietro fino al "I need some attention" che ogni volta mi blocca e mi spiazza. Si prosegue e arriviamo a una delle canzoni che ritengo importanti dal punto di vista semantico per capire quest'artista: And throught the wire. C'è un perenne gioco di parole: "the wire" è la linea che unisce le persone solo attraverso le conversazioni telefoniche, ma è anche il filo spinato tipico dei campi di concentramento e di prigionia che tiene separati, simbolo di divisione e di segregazione. In questa canzone c'è anche una frase che è rivelatrice dell'intera opera testuale di Peter Gabriel: "I talk in picture not in words" Parlo per immagini e non con le parole. Ed è una sua costante. E' molto più attento alle immagini che riesce a suscitare in chi lo ascolta e non al significato in senso stretto delle parole. Di nuovo questo brano la ritmica è ben scandita, marziale, decisa. Una giovanissima Kate Bush introduce il frano in francese: Jeux sans frontiers. Giochi senza frontiere. Games without frontiers. Così la annuncia lo stesso Gabriel dal vivo. Il riferimento è a un vecchio programma che andava in onda su Rai due dove delle nazioni si fronteggiavano in giochi assurdi. E' una metafora: Peter Gabriel da sempre si è dichiarato pacifista. Per lui la guerrà è un'assurdità, e come dargli torto?
Dal macrocosmo, dall'umanità e la guerra, si ritorna al microcosmo, alla società in piccolo che divide in gruppi, in caste e in outsider. Not one of us è una canzone in cui Peter Gabriel stigmatizza questo comportamento. "You may look like we do/Talk like we do/ But you know how it is/You're not one of us" Not one of us si può applicare ad ognuno di noi. E' riferito a tutte quelle persone che per essere sicuri e protetti devono appartenere ad un gruppo. E guardano dall'alto in basso gli estranei, i non appartenenti, i paria. Ho la presunzione di ritenere che se Gabriel canta di questo è perchè, come me, si è sempre sentito un eterno estraneo, un outsider, uno che non appartiene a nessun gruppo in particolare. E alla fine c'è un'apertura magnifica, un assolo davvero strabiliante di Phil Collins alla batteria che ascolterei per ore. Lead a normal life è costruita musicalmente con la struttura dell'haiku. L'haiku è un brevissimo componimento giapponese dalla struttura e metrica rigorosissima.
"It's nice here with a view of the trees
Eating with a spoon?
They don't gave you knives?
'Spect you watch those trees
Blowing in the breeze
We want to see you lead a normal life"
Questo testo minimale è letteralmente sommerso dalla musica, una musica evocativa e emotivamente devastante per me. E' una delle mie preferite in assoluto di Peter Gabriel, e quella che prediligo di questo disco. Biko è una canzone costruita con semplicità. Peter Gabriel alla radio ascolta la notizia dell'assassinio di Stephen Biko, attivista politico arrestato per le sue idee e ucciso dalla polizia sudafricana nel settembre 1977. Il brano come dicevo è molto semplice: si apre con un coro di stampo tribale, l'incedere è lento, pacato, elegante. Il tono usato dall'autore nel dipingere la vicenda è asciutto, telegrafico, come un notiziario. Ci rende partecipi di un'evento e lascia che siamo noi ascoltatori stessi a farci la propria idea. Verso la fine un lieve cedimento. Una frase: "and the eyes of the world are watching now". Gli occhi del mondo stanno a guardare e non li potrai fermare. Dal vivo poi aggiungerà spesso "And now it's up to you": e adesso tocca a voi.
Prodotto da Steve Lilliwhite questo disco servirà da spartiacque nell'intera opera gabrieliana. Finalmente Peter Gabriel ha trovato un proprio stile compositivo identificativo, distante dalle sue opere con i Genesis. Uno stile che aveva cercato, senza trovarlo davvero, nei due dischi precedenti. Peter Gabriel III è un piccolo capolavoro perfettamente calato nelle atmosfere musicali dell'epoca, un'opera profondamente new wave ma anche terribilmente personale. Ebbene si, è uno di quei pochi dischi per cui spendo senza nessun timore la parola capolavoro. Perchè è così.
Sono passati la bellezza di 28 anni da quando questo disco è uscito ma non mi sembra che ne abbia risentito poi molto.
Scusate la lunghezza. So già che arriverà qualcuno a farmi le pulci. Potrei scommetterci un bell'aperitivo.