Ricevuto e ascoltato, finalmente.
Non sono in grado di scrivere una recensione decente per un disco pop, figuriamoci per un album di musica classica.
Mi limito quindi a qualche impressione. I principali "difetti" del precedente "Seven" sono stati tutti affrontati da Tony nel nuovo disco e se non risolti certo attenuati. Meno svolazzi orchestrali inutili, meno evanescenza delle melodie, meno aria da colonna sonora.
Ci sono tre pezzi che mi piacciono senz'altro: il migliore per me è il primo, "Siren", che si avvale del sax di Martin Robertson, capace di dare al brano la corposità timbrica del suo strumento e di sottolineare la bella idea compositiva di Tony. Di questo, come di altri brani del disco, ho apprezzato la costruzione classica con la linea melodica principale che s'intreccia alle altre e torna al momento giusto, riconoscibile nelle sue varianti. In fondo, se ci pensate, "Supper's Ready" o "Firth of Fifth" erano così.
Non a caso, un altro bel pezzo è "The Oracle", pastorale e nebbioso come "Dusk", potrebbe essere su un disco di Ant Phillips, tanto è malinconica e Old England. Mi ha fatto tornare indietro di qualche decennio ed è stata una bella esperienza.
Terza citazione d'obbligo per il gran finale di "City of Gold" (lo so, lo so... il titolo vi ricorda qualcosa
), un pezzone epico di oltre 12 minuti che ricorda ora il John Williams di Indiana Jones, ora gli Enid; tutto sommato, il bano più prog del lotto, strumentazione a parte.
Quanto agli altri brani, ricordo solo il virtuosismo del violinista Charlie Siem in "Blade" e la languida descrizione sonora di "Still Waters".
Bilancio? Non mi sono per nulla annoiato e a tratti la musica mi ha preso davvero. Insomma, un passo avanti decisivo rispetto a "Seven" e un paio di brani che potrebbero entrare nel "Best of" immaginario di Banks.